domenica 25 luglio 2010

....una piccola pillola di sapere.....male non farà!

Tre anni fa il Moma di New York gli ha dedicato una mostra per i suoi primi 50 anni, tutti lo conosciamo di vista ma probabilmente in molti non conoscono il suo nome e le sue origini, suo padre era svizzero e lui ha davvero un buon carattere, deciso, pulito, risoluto, forte...di chi stiamo parlando?
Ma dell'Helvetica....il carattere di stampa ricorrente nei logo di moltissime aziende di tutto il mondo.....troneggia orgoglioso sulle bandiere dell'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, sulla copertina dell'album di John Coltrane "A Love Supreme" e su tutta la segnaletica della rete metropolitana di NY (almeno così è stato fino a quando l'azienda dei trasporti della Grande Mela non ha scoperto lo Standard Medium, un font simile ma più economico).
Quando il designer Max Miedinger la creò nel 1957 su commissione della Fonderia Haas, questo nuovo font non riscosse molto successo...aveva un'altro nome: Neue Haas Grotesk e non un grande appeal. Le cose cambiarono quando la società madre della Haas, la Mergenthaler Linotype, decise di commercializzarlo a livello internazionale e scelse un nome più facile da memorizzare in inglese, semplicemente Svizzera in latino! Il cambiamento funzionò! All'epoca l'ideazione e l'utilizzo di nuovi caratteri di stampa era un'operazione molto costosa, chiunque volesse utilizzare un font particolare doveva comprare un intero set di lettere, realizzate scolpendone la forma nel metallo. L'Helvetica sfondò, specialmente nelle agenzie pubblicitarie statunitensi. Tutte le aziende che volevano dare un'immagine di sè dinamica e moderna lo adottarono. In poco tempo divenne il carattere di stampa più usato al mondo!
Volete vederlo? Fate caso alla carlinga di un aereo Lufthansa......

lunedì 19 luglio 2010

… c’è “chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire e n'è sbalzato lontano da una forza perversa!”

I ricordi di quella notte sono forti e intensi anche se a tratti confusi. Quando li riporto alla mente partono sempre dal piazzale in cui ci siamo rifugiati. Il primo luogo aperto e sicuro vicino a casa mia. Gente in pigiama, scalza, stretta in un giubbetto o in una coperta. Sguardi atterriti, disorientati, vuoti. Incapaci di vedere più in là di quel preciso istante. Increduli e felici di essere in salvo, ma proiettati con la mente a qualche minuto prima, quando un’energia dalla potenza inenarrabile scuoteva le nostre case come una scatolina in mano ad un gigante. Scuoteva le nostre case e le nostre vite. Il nostro passato e il nostro futuro. Tutto quello che era e che non è più. Tutto quello che non sarà mai più come un tempo. Questo dicevano le facce intorno a me, incorniciate nella polvere bianca delle macerie. E poi il senso di smarrimento… unica certezza essere lì in quel momento, ma nessuna notizia di parenti e amici. E intanto si piangeva e si tremava per quello che si era lasciato alle spalle…

Cosa è adesso L’Aquila si capisce bene a passare di notte sul viadotto dell’autostrada: al posto della infinita distesa di lucine che punteggiavano la grande conca su cui è adagiata la città, solo il buio attraversato dalle linee rette tracciate dai solitari lampioni delle pubbliche vie. Nulla intorno se non il silenzio.

Il silenzio proveniente dalle case disabitate. Case dalle finestre spalancate sul vuoto da cui svolazzano cupamente le tende. Case dalle facciate percorse da lunghe e inquietanti crepe, a volte isolate, a volte ramificate come ragnatele. Case in cui nessuno può vivere più perché distrutte o seriamente compromesse.

Silenzio e crepe ancora più evidenti e inquietanti nel centro storico. La “zona rossa” che pochi hanno visto dopo quella notte, la zona che ne porta i segni più drammatici. Ancora cumuli di macerie, auto danneggiate, palazzi accasciati e ancora più forte e desolante il silenzio, l’incredulità, il senso di smarrimento. I palazzi rimasti in piedi sembrano non reggere il peso di quelle ferite. La città, colpita nelle innumerevoli chiese e nei suoi signorili palazzi, è come sfigurata e sfinita.

La casa, questo tra l’altro gela il cuore degli aquilani, la perdita della casa e di tutto quello che essa rappresenta. Non è andato perduto solo il suo valore economico, ma tutto quello che di più caro essa simboleggia: il luogo dell’intimità domestica, della quiete, della sicurezza abbinata al concetto intrinseco di solidità di un immobile. E se è vero che si può capire il valore di qualcosa solo quando la si perde, allora nessuno più di noi può capire cosa sia non avere più una casa. La propria casa rappresenta una parte della propria vita. La si è messa su con amore e sacrificio giorno dopo giorno e, piccola o grande che sia, è venuta su con noi, rappresenta una parte di noi e porta racchiusi in sé gli istanti della nostra esistenza, la nascita dei figli, il ritrovo con parenti e amici, la nostra stessa personalità. Gli stessi oggetti con cui è adornata parlano di noi.

Tutto questo, e non solo, è quello che abbiamo perso. Perché con la nostra casa è venuta meno tutta una città. Non c’è più vita a L’Aquila, ecco perché c’è il silenzio, interrotto a tratti solo dal mesto e rassegnato viavai di mezzi della protezione civile. È una città senza anima, una città fantasma dove campeggiano delle specie di spettri di case attraversate da ferite profonde che lasceranno segni perenni nella memoria.

Ci mancano la piazza del Duomo dove quotidianamente, da centinaia di anni, si svolgeva il variopinto mercato, le chiese, tra le ricchezze più belle e più straziate, l’ospedale, i cui reparti hanno riaperto precariamente sotto le tende, le scuole, dove faceva perno la preziosa quotidianità della vita dei nostri ragazzi e dei nostri bambini, con le immagini e le cose a loro note e care. Tutti i punti di riferimento che esistono e che si danno per scontati, ma che fanno di una città la tua città. Perché sono lo sfondo su cui sei nato e cresciuto e che fanno così tanto parte di te che se ti mancano è come se perdessi parte della tua identità.

Cosa fare per L’Aquila è difficile da dire, solo una certezza: la necessità di ricominciare. Di tirare via le persone dalle tendopoli afflitte dal caldo, minacciate dai pericoli della scarsa igiene, insidiate dagli insetti. Ricostruire. Dare segnali, forti e inequivocabili di procedere in tal senso. Perché il desiderio di fuga è forte e palpabile assieme alla paura per quelle odiose e ininterrotte scosse. Perché se non si interviene così la paura prevarrà sul desiderio di rinascita. Occorre perciò consentire a chi può di rientrare in casa e fornire alloggi temporanei e dignitosi a chi non ne ha più. Far ripartire le attività pubbliche e private. Il tutto nella consapevolezza che occorrerà tempo, tanto tempo, insieme all’entusiasmo e al coraggio degli aquilani e alla solidarietà di tutti.

La speranza è che si torni fieri e felici a guardare quei monti, noti a chi è cresciuto tra loro e impressi nella sua mente. Perché il nostro forzato commiato non sia un inesorabile addio di manzoniana memoria. Perché tra quei monti c’è “chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo”, c’è “chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire e n'è sbalzato lontano da una forza perversa!” e c’è “chi staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti per avviarsi in traccia di sconosciuti, che non ha mai desiderato di conoscere e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno!” (da “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni).

mercoledì 7 luglio 2010

Nel giardino dei piaceri

Volete andare a fare una vacanza, anche breve, per rilassare le stanche membra e godere di un mare cristallino, scoprendo posti che porterete sempre nel cuore? Andate all’Isola d’Elba! Le spiagge, gli scogli, i paesaggi, ma soprattutto il mare, delle tonalità più diverse e brillanti che possiate immaginare, rimarranno dentro di voi, prendendosi un posto che difficilmente verrà scalzato. E come nella migliore tradizione italiana tutto può essere esaltato dal provare rinnovate piacevolezze del palato.

Per chi non può fare a meno di godere dell’emozione dei sensi, è sufficiente cercare un locale dove poter gustare una bella colazione direttamente sul porticciolo, pranzare in maniera leggera ma sfiziosa, sorseggiare un aperitivo al tramonto, gustare del pesce senza la sontuosità di ristoranti troppo pretenziosi, e magari rinfrescarsi con del buon gelato realizzato con ingredienti naturali e genuini.

Scoprire di poter fare tutto ciò in unico posto non sarà mai noioso e ripetitivo se vi trovate a Marina di Campo e vi imbattete nel Bar-Ristorante-Gelateria Garden Beach.

Succede che si vada lì per provare l’aperitivo, dopo aver letto la segnalazione di una blogger molto informata sulla Toscana (link), e ci si ritrovi a ordinare la cena. I camerieri sono in divisa coordinata e calata perfettamente nel contesto, jeans e t-shirt, con un deciso richiamo ai più famosi locali della costiera adriatica. Per conoscere le proposte del ristorante si ascolta il menu snocciolato a voce, con l’ausilio di un semplice foglietto scritto a penna, che però tralascia le indicazioni sui prezzi di cibo e vino. Sono previste solamente pietanze a base di pesce ma, fortunatamente, la testa matta (testualmente definito tale) dello chef, riesce ad inventare qualcosa anche per i non amanti del genere. Certo, se avessero avuto disponibilità di un abitante del mondo marino da cuocere al forno o alla brace, non sarebbe stato necessario realizzare delle elaborazioni di melanzane-mozzarella-prosciutto, come antipasto, e delle tagliatelle verdi come primo piatto, ma apprezziamo la versatilità. Il vino si assaggia prima con un calice (che verrà rigorosamente riportato sul conto), per poi essere servito da una bottiglia nuova, ancora chiusa, riposta in apposito cestello con ghiaccio, per fortuna non imbragato in un semplice panno refrigerante, che è allo stesso modo efficace, ma esteticamente meno presentabile. La pecca è, semmai, nella proposizione dell’acqua naturale lasciata in bottiglie di plastica (0,5 o 1,5 lt), che vengono inesorabilmente poste sul tavolo come se fossero state portate da casa. La cena procede bene, il vino raggiunge il fondo (ma tranquilli, risalirà più tardi …) e il cibo realizza lo scopo di saziare lo stomaco.

Senza neanche conoscerne l’accessorio, nel girare l’angolo, prima di arrivare sulla via principale, si scorge una vetrina aggiuntiva prodiga di gelato artigianale che già all’aspetto ispira l’assaggio. Dopo averlo divorato, si scatena la necessità di ritornare per provare tutta la varietà proposta. Negli amanti del genere alberga la convinzione che la genuinità del gelato si misuri dai gusti naturali, che non hanno cioè bisogno di ulteriori aggiunte al prodotto costituente, oltre al latte e allo zucchero. Ebbene, vi invito a verificare quanto pistacchio, crema e cioccolato rendano il gelato del Garden tra i migliori che abbiate mai assaggiato.

Manca purtroppo all'appello la rilevazione relativa alla colazione: sembra però non di meno meritare apposita visita, considerando la vastità e l'appetibilità visiva dell'offerta.

Bastano quattro giorni per riprendersi dalle fatiche quotidiane.,...provare per credere!