I ricordi di quella notte sono forti e intensi anche se a tratti confusi. Quando li riporto alla mente partono sempre dal piazzale in cui ci siamo rifugiati. Il primo luogo aperto e sicuro vicino a casa mia. Gente in pigiama, scalza, stretta in un giubbetto o in una coperta. Sguardi atterriti, disorientati, vuoti. Incapaci di vedere più in là di quel preciso istante. Increduli e felici di essere in salvo, ma proiettati con la mente a qualche minuto prima, quando un’energia dalla potenza inenarrabile scuoteva le nostre case come una scatolina in mano ad un gigante. Scuoteva le nostre case e le nostre vite. Il nostro passato e il nostro futuro. Tutto quello che era e che non è più. Tutto quello che non sarà mai più come un tempo. Questo dicevano le facce intorno a me, incorniciate nella polvere bianca delle macerie. E poi il senso di smarrimento… unica certezza essere lì in quel momento, ma nessuna notizia di parenti e amici. E intanto si piangeva e si tremava per quello che si era lasciato alle spalle…
Cosa è adesso L’Aquila si capisce bene a passare di notte sul viadotto dell’autostrada: al posto della infinita distesa di lucine che punteggiavano la grande conca su cui è adagiata la città, solo il buio attraversato dalle linee rette tracciate dai solitari lampioni delle pubbliche vie. Nulla intorno se non il silenzio.
Il silenzio proveniente dalle case disabitate. Case dalle finestre spalancate sul vuoto da cui svolazzano cupamente le tende. Case dalle facciate percorse da lunghe e inquietanti crepe, a volte isolate, a volte ramificate come ragnatele. Case in cui nessuno può vivere più perché distrutte o seriamente compromesse.
Silenzio e crepe ancora più evidenti e inquietanti nel centro storico. La “zona rossa” che pochi hanno visto dopo quella notte, la zona che ne porta i segni più drammatici. Ancora cumuli di macerie, auto danneggiate, palazzi accasciati e ancora più forte e desolante il silenzio, l’incredulità, il senso di smarrimento. I palazzi rimasti in piedi sembrano non reggere il peso di quelle ferite. La città, colpita nelle innumerevoli chiese e nei suoi signorili palazzi, è come sfigurata e sfinita.
La casa, questo tra l’altro gela il cuore degli aquilani, la perdita della casa e di tutto quello che essa rappresenta. Non è andato perduto solo il suo valore economico, ma tutto quello che di più caro essa simboleggia: il luogo dell’intimità domestica, della quiete, della sicurezza abbinata al concetto intrinseco di solidità di un immobile. E se è vero che si può capire il valore di qualcosa solo quando la si perde, allora nessuno più di noi può capire cosa sia non avere più una casa. La propria casa rappresenta una parte della propria vita. La si è messa su con amore e sacrificio giorno dopo giorno e, piccola o grande che sia, è venuta su con noi, rappresenta una parte di noi e porta racchiusi in sé gli istanti della nostra esistenza, la nascita dei figli, il ritrovo con parenti e amici, la nostra stessa personalità. Gli stessi oggetti con cui è adornata parlano di noi.
Tutto questo, e non solo, è quello che abbiamo perso. Perché con la nostra casa è venuta meno tutta una città. Non c’è più vita a L’Aquila, ecco perché c’è il silenzio, interrotto a tratti solo dal mesto e rassegnato viavai di mezzi della protezione civile. È una città senza anima, una città fantasma dove campeggiano delle specie di spettri di case attraversate da ferite profonde che lasceranno segni perenni nella memoria.
Ci mancano la piazza del Duomo dove quotidianamente, da centinaia di anni, si svolgeva il variopinto mercato, le chiese, tra le ricchezze più belle e più straziate, l’ospedale, i cui reparti hanno riaperto precariamente sotto le tende, le scuole, dove faceva perno la preziosa quotidianità della vita dei nostri ragazzi e dei nostri bambini, con le immagini e le cose a loro note e care. Tutti i punti di riferimento che esistono e che si danno per scontati, ma che fanno di una città la tua città. Perché sono lo sfondo su cui sei nato e cresciuto e che fanno così tanto parte di te che se ti mancano è come se perdessi parte della tua identità.
Cosa fare per L’Aquila è difficile da dire, solo una certezza: la necessità di ricominciare. Di tirare via le persone dalle tendopoli afflitte dal caldo, minacciate dai pericoli della scarsa igiene, insidiate dagli insetti. Ricostruire. Dare segnali, forti e inequivocabili di procedere in tal senso. Perché il desiderio di fuga è forte e palpabile assieme alla paura per quelle odiose e ininterrotte scosse. Perché se non si interviene così la paura prevarrà sul desiderio di rinascita. Occorre perciò consentire a chi può di rientrare in casa e fornire alloggi temporanei e dignitosi a chi non ne ha più. Far ripartire le attività pubbliche e private. Il tutto nella consapevolezza che occorrerà tempo, tanto tempo, insieme all’entusiasmo e al coraggio degli aquilani e alla solidarietà di tutti.
La speranza è che si torni fieri e felici a guardare quei monti, noti a chi è cresciuto tra loro e impressi nella sua mente. Perché il nostro forzato commiato non sia un inesorabile addio di manzoniana memoria. Perché tra quei monti c’è “chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo”, c’è “chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire e n'è sbalzato lontano da una forza perversa!” e c’è “chi staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti per avviarsi in traccia di sconosciuti, che non ha mai desiderato di conoscere e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno!” (da “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni).
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